Chiunque pratichi yoga, sa che non tutte le posizioni sono uguali: alcune risultano più facili e piacevoli; altre, al contrario, mettono così a disagio il corpo che non vedi l’ora di scioglierle.

Anche durante l’esecuzione degli asana, la nostra mente –  per il tramite del corpo –  ci invita a restare nella nostra zona di comfort e ci spinge ad evitare proprio quelle posture che possono effettivamente apportare in noi un cambiamento.

La posizione che non ci piace, che tendiamo ad evitare, è proprio quella da “ascoltare”, quella che individua il nostro modo di percepire la realtà, che ci indica dove effettivamente abbiamo necessità di portare la nostra attenzione, la nostra consapevolezza, il nostro amore, se vogliamo che la nostra pratica sia un percorso evolutivo e di consapevolezza, e non semplice ginnastica.

Si dice infatti che l’asana inizi proprio quando vorresti scioglierla.

Personalmente,  dalla prima volta che l’ho eseguita, ho nutrito una naturale avversione per URDHVA DHANURASANA: quando mi viene proposta, quanto meno, alzo gli occhi al cielo…

Qualche anno fa, nel corso di una lezione, alla sola idea di doverla ripetere per la terza volta di seguito, mi è capitato di avvertire una sorta di dolore bruciante esplodermi nel petto, fino a sentire gli occhi diventare lucidi e poi riempirsi di lacrime.

Le braccia – che rappresentano l’estensione del cuore –  non rispondevano più, come se non avessero la forza di dare la spinta per sollevare il corpo. Di certo, le mie braccia erano forti a sufficienza per eseguire la posizione, ma c’era ben altro che mi ostacolava.

E’ stato in quel momento che ho rivisto tutte le volte in cui mi sono lasciata vincere dalla paura davanti ad una sfida, autoboicottandomi e allontanandomi, da sola, dal risultato ambìto.

L’asana inizia quando vorresti scioglierla, perché è proprio in quel momento che inizi ad ascoltarti veramente, a conoscerti un po’ di più, a sentire cosa la tua anima ti sta urlando attraverso le  tensioni muscolari, la fatica fisica, il disagio emozionale.

In tal modo, anche la pratica più prettamente fisica dello yoga può diventare momento di pura consapevolezza e meditazione, se solo applichiamo ad ogni posizione e ad ogni movimento l’insegnamento che ci è stato consegnato da Buddha: la vita è dolore e il dolore ha una causa, ma solo conoscendo la causa del dolore, potrai conoscerne la sua reale natura e, conseguentemente, dissolverlo.

Purtroppo, per arrivare alla radice del nostro dolore – che sarà poi la nostra liberazione dallo stesso – non esiste un metodo facile: l’unico modo per conoscere la causa del dolore che ci affligge, come affligge ogni essere umano, è lasciarci travolgere.

Serve un po’ di coraggio per affrontarlo, anziché evitarlo, come facciamo normalmente.

Dobbiamo dargli tutta la nostra attenzione cosciente, così in meditazione, come durante l’esecuzione degli asana: il dolore è dolore e non importa quando viene a farci visita.

Se lo sapremo accogliere con consapevolezza e amore, avremo fatto un altro passo nella direzione della vera conoscenza e della liberazione.

Solo se avremo capito che non c’è dolore fisico che non sia, in verità, anche dolore dell’anima, potremo dire di aver praticato realmente yoga…

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