Come il ferro, penetrato dall’elisir, non torna alla natura di ferro, così la mente, penetrata dal piacere, non torna alla natura del dolore”. (Naropa. “Iniziazione, Kalacakra”, Adelphi, Milano, 1994, p. 344).

Naropa è l’autore di importanti testi di yoga tantrico, come il famoso Kalacakra. Note sono anche le sue pratiche Yoga, conosciute come gli yoga di Naropa.

Lo yoga di Naropa partecipa di una visione sciamanica del mondo, propria di una umanità ancora impegnata alla conquista dell’ambiente naturale e al confronto diretto, “corpo a corpo”, con le potenze della natura.

In questo “confronto” uomo e ambiente risultano realtà distinte ma non separate: lo spirito si riflette nella materia e la materia si conosce nello spirito, l’anima è corpo e il corpo è anima.

La natura vergine, che dà visione di cime montuose imponenti, di spazi sconfinati, la natura impervia e potente, mostra all’uomo la forza e le vastità della sua anima.

Nella tradizione sciamanica-tantrica macrocosmo e microcosmo, geomanzia e spiritualità coincidono, le forze elementari ostili dell’ambiente e le forze oscure dell’inconscio umano sono i due aspetti di una medesima realtà.

Nello yoga tantrico la conquista delle potenti energie inconsce celate nell’uomo e il dominio del territorio appaiono un medesimo cammino: cogliere il segreto della materia è raggiungere l’essenza dell’anima e viceversa.  A ciò servono le pratiche yogiche.

Cammino decisamente controcorrente, lo yoga tantrico utilizza, quale mezzo di realizzazione, i limiti che l’individuo, sulla base dei comuni valori di salute/malattia, benessere/malessere, vantaggio/svantaggio, tende a voler curare, e presto insegna che – per dirla con le provocatorie parole di un grande filosofo moderno: ”Le turbe, le vergogne, le paure da cui le terapie religiose o profane vogliono liberarci, costituiscono un patrimonio di cui a nessun prezzo dovremmo lasciarci defraudare. Dobbiamo difenderci dai nostri guaritori e, a costo di perirne, preservare i nostri mali e i nostri peccati”. (E. M. Cioran, La tentazione di esistere, Milano, Adelphi, 1984, p. 94).

Così, rinunciando alla corsa al consumo di modelli terapeutici e religiosi, che in abbondanza il mondo vende e molto spesso offre in saldo, lo yogin si pone silente e immobile all’ascolto di sé e di ciò che nel suo corpo è, esattamente così com’è, nel momento in cui è, consapevole che non esiste guarigione, poiché non c’è nulla che debba guarire e non esiste alcun cambiamento, poiché non vi è nulla che possa cambiare, nascere o morire.

“Se non si ha l’intuizione profonda che non esiste alcun conseguimento spirituale da ottenere, qualsiasi sforzo si faccia con il desiderio di ottenerlo, non sarà possibile raggiungere la liberazione”. (Ma Gcig, Canti Spirituali, Milano, Adelphi, 1995, p. 75).

Meditare, in una visione tantrica, significa porre attenzione a tutto ciò che è, ed essere felicemente se stessi, liberati dalla sensazione che possa esistere il meglio e il peggio, il superiore e l’inferiore. La meditazione è, dunque, per dirla con le parole di un altro grande filosofo moderno, “imparare ad amare se stessi di un amore sano e salutare: tanto da sopportare di rimanere presso se stessi e non andare vagando in giro”. (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 1968, p. 227).

Stare bene, percepire noi stessi e la nostra realtà con piacere, essere rilassati, aperti, ricettivi, padroni del corpo, dell’alimentazione, del nostro tempo, delle azioni che intraprendiamo, di quanto ci accade, in un’espressione “essere felici”, ci appare, in un mondo a cui piace sentirsi duro e greve, come il più grande atto rivoluzionario che possiamo compiere.

Il nostro piacere dipende dalla qualità della nostra percezione.

Uno spirito abita le profondità dei nostri corpi e delle nostre anime, è la dea della bellezza. La dea sfugge ai nostri valori, per tentare di raggiungerla dobbiamo sovvertire l’ordine stesso dei nostri significati.

La gerarchia dei valori di vantaggio e svantaggio, bene e male, vero e falso è l’ordine sociale che abbiamo incorporato: senza una gerarchia interna nessuna gerarchia esterna sarebbe possibile.

La ragione è quella funzione della mente attraverso la quale stabiliamo le regole del vivere insieme, creando gerarchie di valori e significati.
I significati che la ragione attribuisce agli eventi sono finalizzati al rinforzo della collettività. Così, quando un uomo si mette in cerca della propria salute, del proprio vantaggio, del proprio benessere a mezzo della propria ragione, in realtà insegue ciò che è più salutare, più utile e benevolo alla collettività, non a se stesso. Che il benessere della società e delle istituzioni corrisponda alla felicità dell’uomo, questo mi pare ormai appurato essere falso. Noi non siamo batteri, forse non eravamo neppure fatti per vivere in colonie, alcuni di noi certamente sono solitari come aquile e non amano volare a stormi.

Ammesso che davvero vogliamo farlo, di certo non possiamo raggiungere la dea a mezzo della ragione.
L’oggetto della scienza è il problema della conoscenza, non il tema della felicità. Non dobbiamo confondere la sopravvivenza con la felicità.
Felicità è piacere, bellezza: è dea immortale, non c’entra con quell’epico tentativo di fuga dalla morte che è la cultura. Cultura è tormento, vocazione all’infelicità.

Ma la mente razionale non è la sola che abita questo pianeta Terra, c’è una mente nel nostro cane e c’è pure negli alberi e nei fiori, c’è una “mente dell’atomo”. Quella mente non logica possiamo definirla mistica, essa non ha bisogno delle parole per funzionare, possiamo chiamarla mente immaginativa, estetica, contemplativa e creativa, in essa non ci sono perché, ci sono solo scelte e il soggetto pensante non è la vittima, ma il creatore della sua realtà.

Meditare, nella visione tantrica, è centrare la coscienza tra le sue due opposte facoltà di pensiero, senza mai aderire a nessuna di esse in modo severo. Essere centrati è una condizione dinamica, non statica, una danza leggera tra gli opposti.
Il razionalista e il mistico sono in noi, ma la dea della bellezza è infedele ad entrambi per vocazione divina.
Gli dèi sono infedeli e illogici; già questo dovrebbe bastare a farci sospettare dei valori che abbiamo assegnato ai nostri principi.
Gli dèi sono irrazionali, infedeli e bugiardi e noi, a furia di professare le regole della buona condotta, ce li siamo lasciati scappare.

Fare “i bravi ragazzi” non era una nostra inclinazione naturale, per riuscirci abbiamo dovuto ricorrere alle religioni sociali. E, a mezzo di queste, calare il divino nella storia, rendendo le nostre regole, le nostre morali, le nostre leggi eterne e universali.
Abbiamo creduto nella nostra bontà, l’abbiamo voluta con tutte le nostre forze, ma il risultato che, a tutt’oggi, abbiamo sott’occhio non è gratificante.
Però noi, infaticabili eroi del bene, più creiamo l’inferno su questa terra e più crediamo nel paradiso o nella buona rinascita e, ovviamente, in tutti quei valori di bene e male che ce li farebbero guadagnare. Non siamo batteri, la divisione tra buoni e cattivi non rispetta la nostra natura.

Dobbiamo essere chi siamo. In questo senso non siamo stati abbastanza razionalisti e materialisti. Avremmo dovuto accettare, a mezzo della ragione, che il nulla è ciò che ci attende.
Solo pensando di essere un nulla che va verso il nulla avremmo potuto risolverci a vivere l’impressione di essere qualcuno in modo divertito, anziché prenderci sul serio. Invece, incapaci di rinunciare all’idea di noi stessi, ci siamo arenati nella metafisica, divenendo grevi e opprimenti.
Essere chi siamo fino in fondo: razionali fino in fondo e mistici fino in fondo senza prendere né il razionalista né il mistico in noi mai sul serio: questa doveva essere la condizione che piaceva alla dea.
Ma l’individuo ha necessità di inventarsi uno scopo diverso rispetto a quello di vivere.

Quando i valori delle grandi religioni storiche entrano in crisi, nasce una religione salvifica moderna: psicoterapia e new-age, con una varietà incredibile di proposte per il benessere, la salute e l’illuminazione.
Davvero l’individuo ha necessità di un credo, che riguardi la sua anima o il suo corpo, e di teorie da condividere con le sue idee o con i suoi muscoli.

La libertà in questo mondo è un evento scandaloso e indecente, proprio per ciò essa e cosa desiderabile.
Nello yoga la libertà è cosa fisica, ha l’evidenza di un fatto. Chi pratichi uno yoga sa che la libertà è un evento muscolare, perché la morale convenzionale e i suoi condizionamenti sono fatti corporei, stati del sistema percettivo, umori delle carni, condizioni dell’essere nel mondo.
Questo corpo, che è anima, non ha tanto bisogno di addestrarsi, quanto di ascoltarsi, poiché è da se stesso che esso impara. 
Ascoltare il corpo liberi da ogni interpretazione del corpo è finalmente porgere l’orecchio al richiamo dell’anima.

Lo yoga tantrico insegna che gli organi del corpo, al pari delle montagne dei fiumi e dei mari, sono dèi, dèmoni, spiriti immortali. Come dimenticare il titolo dell’importante libro di Mircea Elide che, in tre parole, riassume il carattere del cammino dello yogin: ” Lo Yoga, immortalità e libertà”. (Mircea Elide “Lo Yoga, immortalità e libertà”. Milano, Bur, 1973).

E come ignorare il bellissimo brano di quel breve e incisivo testo tantrico, la Shiva Samita:
In questo corpo c’è il Meru (il monte sacro che viene identificato con l’asse cosmico) circondato da sette isole, vi sono sette fiumi, mari, monti, campi e proprietari di campi. Ci sono “rsi” (saggi) e “muni” (asceti), tutte le stelle e i pianeti, i sacri “tirtha” (santuari), i “pitha” (luoghi sacri) e le divinità protettrici dei “pitha”.
Vi si muovono il sole e la luna, autori della creazione e della distruzione. Vi sono anche l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua e la terra.
(Shiva Samita, Torino, Promolibri, 1990, p. 15).

Trovata la libertà nel corpo, lo yogin scopre che il mondo con i suoi condizionamenti incessantemente si ricrea nelle sue carni, perché la libertà possa essere sempre affermata. La libertà è, infatti, libertà da qualche cosa e ha necessità di un mondo che libero non sia. Trovati gli dèi immortali, lo yogin incontra la morte come suprema affermazione dell’immortalità dello spirito, raggiunto il piacere e la realizzazione, sempre lo yogin riassorbe in sé il dolore e il buio come affermazione del proprio essere sacro.
Accogliere in sé la notte e la tempesta, come fa la natura, assimilarle, significa cessare di esserne succubi e scoprire che, con i dèmoni e gli dèi si possono stringere rapporti d’amicizia, d’alleanza, d’amore e che la condizione di vittime dei nostri affanni non è la sola possibile.
La tragedia è, di tutti i generi letterari, la più autentica rappresentazione della psiche umana…

Tuttavia, nell’accadere stesso delle cose, sempre si rivela agli occhi resi attenti del meditante la possibilità di vivere il dolore come una forza o un potere.

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Dagli insegnamenti di Selene Calloni Williams

LUCE, OMBRA e VERITA'
AUTOSTIMA E POTERE PERSONALE

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